Leggo su Repubblica che la Signora Linda McQuillen, un’insegnante in pensione del Wisconsin, ha appena scoperto che la sua casetta, acquistata nel 1989 per una cifra relativamente bassa, è in realtà stata progettata nel 1917 da uno dei più grandi architetti del secolo scorso, Frank Lloyd Wright.
Inizio a domandarmi quali segreti possano contenere le nostre case, quali storie prima delle nostre custodiscano i muri che non parlano e le lavatrici silenziose, gli oblò che guardano, l’isolamento elevato al triplo vetro.
Ripenso alla vecchia casa di mia nonna, quella che a me e alle mie cugine preparava il panino con la nutella, che ci portava a fare la spesa sul portapacchi della bicicletta e alla quale ogni tanto fregavamo i soldi per procurarci le patatine (lei lo sapeva, naturalmente, tra noi quel gioco “guardia che non guarda e ladri che disseminano indizi” era un tacito accordo basato sul suo lassismo educativo).
Nella casa di mia nonna c’era una porta e dietro la porta un ripostiglio e attorno al ripostiglio un muro e dentro il muro un buco.
Attraverso quel buco io guardavo.
Era una specie di finestrella dimenticata, chiusa in modo posticcio con un grosso pezzo di polistirolo. Il polistirolo si poteva estrarre e io lo facevo con lentezza, trattenendo la voglia di premere le dita sulla superficie per sentirla un pochino cedere e vedere i piccoli avvallamenti lasciati dalla pressione dei polpastrelli su quel materiale arrendevole.
Al di là del muro c’era il salone della Anita, una anziana parrucchiera con i capelli candidi cotonati, la pelle chiara e un reticolo di rughe eleganti come la tela di un ragno. E infatti la sua figura catturava gli sguardi proprio come fa il ragno con le prede, poi li legava, trattenendoli a sé. Ed è qui che nasce, secondo me, l’espressione “non riuscire a staccare gli occhi di dosso”.
E infatti io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, alla Anita.
Incorniciata dalle pareti del foro attraverso cui la osservavo, apriva i tubetti per fare le tinte alle signore e l’odore forte dell’ammoniaca era buono e mi provocava una lieve scossa alcolica.
Quando iniziava a pettinare i capelli a una cliente, io sentivo i miei capelli lisciarsi un po’, poiché quando i neuroni si specchiano, lo fanno senza vanità, e il piacere che è dell’altro diventa anche un po’ nostro.
Le donne parlavano di cose che non sempre capivo e le loro teste si infilavano dentro i caschi con gesti a volte sgraziati e ogni tanto qualcuna si lamentava che c’era troppo calore. La Anita trafficava con il casco e chiedeva “meglio?” e la cliente rispondeva sempre “sì meglio”.
Il mio viso stava ritratto all’interno del muro, senza farsi notare, ma io mi immaginavo di sporgere la testa fino a farla sbucare fuori, nella stanza della Anita, e mi ritornava in mente una scena del tutto fuori luogo, vista molto tempo prima dal cortile di casa di mia zia, in cui una mucca sporgeva il capo fuori dalla feritoia della sua stalla come emergendo da un sogno.
Ricordavo quella testa di mucca incastonata nel muro, senza un corpo, che mi fissava a distanza e io non capivo cosa ci facesse una solitaria mucca proprio lì, in una casa che non aveva l’aria di essere una fattoria o altro di simile.
L’Anita il più delle volte non si accorgeva di me, continuava a lavorare illuminata dal sole che entrava attraverso la vetrata del negozio e le dava una evanescenza dorata che cacciava via dalla mia testa i ricordi strani e la mucca.
Qualche volta, invece, di me si accorgeva.
Allora mi strizzava un occhio senza farsi notare dalle clienti e questo nostro segreto per me era una cosa grandiosa, come può esserlo il patto tra una maga e una bambina.
La casa di mia nonna è stata ristrutturata, ma le sue storie sono ancora lì e il sole che illuminava la Anita è catturato in una immagine.
Ogni casa è illuminata.
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(dalle suggestioni di questo articolo ha preso il via una serie di micro racconti legati tra loro. … continua a leggere (clicca qui)
Foto di Mirko Piccinato
http://www.mirkopiccinato.com
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Oddio, che storia meravigliosa. Vorrei andare a farmi i capelli dall’Anita.
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