Io, Luca e Lorenzo ci siamo trasferiti nella nostra attuale casa circa due anni fa. Prima vivevamo in una villetta a più piani dove la vita era articolata tra ciò che è esposto e ciò che è nascosto: un piano terra più o meno in ordine, le camere su in alto con i letti anarchici, un piano interrato non meglio specificato, e una lavanderia ai confini del regno che presupponeva una relazione a distanza con la roba sporca, anche detta lontano dagli occhi, lontano dall’asse da stiro.
In quella casa la storia con noi è stata un po’ buona e un po’ cattiva, molte cose belle, alcune molto dure, un groviglio di vita manifestata in oggetti superflui o amati, quadri, magiche posate dell’Ikea – quelle che si piegano con lo sguardo – un albero piantato come deve fare ogni uomo, un test di gravidanza, una vecchia e rimpianta poltrona sostituita da una più moderna chaise longue presto ribattezzata Torquemada in quanto comoda come una vergine di Norimberga.
Era una casa, quella, simile ai suoi abitanti: entusiasta, in cerca di definizione, certe volte confusa, con qualcosa di nuovo, di vecchio e di prestato, ma senza il bouquet della sposa perché i fiori non sono mai stata capace di farli crescere, e forse per questo quando nacque Lorenzo per me fu un po’ come se fosse spuntata in casa una magnifica e misteriosa orchidea e io un floricoltore inadeguato, anche se pieno di buona volontà: avrà bisogno di fresco o di caldo? di sole – con quel colore giallo ittero – o di ombra? di più o meno nutrimento?
Poi lessi che “i bambini non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere”.
E così mi venne definitivamente il terrore di averlo acceso troppo.
– Ho acceso il bambino, l’ho cotto.
– Ma che stai dicendo?
– Sì vedi? Gli ho fatto il bagnetto e l’acqua era sicuramente troppo calda e ora è infuocato, guarda…
– Stai calma, ha solo le guance arrossate, sta bene.
– Oddio l’ho cotto.
Un giorno abbiamo iniziato a restaurare la casa che fu di mia nonna, e così facendo abbiamo scoperto le infinite sfumature di parquet, abbiamo conosciuto la differenza tra vasi sospesi, per sognatori con la testa sulle nuvole, e sanitari classici, per gente col culo ben piantato a terra. Abbiamo sperimentato che il conto è uguale al preventivo più iva alla seconda, abbiamo scoperto che la rubinetteria di design costa cifre assurde e che no, il rubinettone da Masterchef non potevo averlo. E infine ci siamo trasferiti e abbiamo festeggiato il primo capodanno nella casa nuova brindando con i bicchieri di plastica sopra la sfumatura di parquet n.139.
Per quanto mi riguarda, oggi posso dire che è una casa che mi assomiglia perché forse ha iniziato a fare la pace con i propri limiti, ma non è ancora del tutto consapevole delle proprie potenzialità.
Per esempio ora so che ho bisogno di guardare in faccia il lato oscuro delle cose per poterci fare i conti, di inoltrarmi nell’abisso dei panni sporchi e nel pozzo della lavatrice che adesso non si trova più nelle profondità della casa, ma al piano terra, in uno sgabuzzino a portata di mano, accanto alle scarpe che popolano le mensole. Sopra tutto, ci sono dei fili sospesi, con un ingegnoso sistema per poter asciugare i panni vicino agli occhi e al cuore, maglie che tendono le braccia, jeans in attesa di camminare, collant insostenibilmente leggeri che puoi indossare una sola volta, e calze pesanti che tiri fuori a ogni inverno.
Però ora so anche un’altra cosa. Che non sono l’unica.
Per qualche strano motivo quando le mie amiche vengono a trovarmi per la prima volta e io faccio fare loro un giro per la casa, il luogo sul quale ci soffermiamo di più è proprio lo sgabuzzino, il pozzo dell’anima.
Si sta lì per un po’ e ci si guarda dentro assieme.
Poi alziamo il naso verso i fili che legano i panni sospesi, e salta fuori sempre un racconto, una storia, oppure un non detto.
Chissà perché.
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