L’intervento

mirkopiccinato
foto di Mirko Piccinato

Suo cugino Matteo tiene fermi i polli con entrambe le mani, una sulle zampe e una sulle ali.
Questo è il suo compito, immobilizzare i polli mentre la zia infila loro una forbice nel collo, Sante non sa di preciso dove, ma è un punto che la zia individua senza esitazione. Poi bisogna mantenere salda la presa per far defluire il sangue a terra così la carne rimane bianca.
Sante ha assistito alla scena altre volte e tutte le volte la guarda rapito e disgustato.

Matteo ha un ampio spazio tra gli incisivi e tre anni più di lui, tredici, e quindi è quello che comanda e ciò che comanda va sempre a discapito di Sante. Però quando ha a che fare con sua madre non comanda un bel niente, altrimenti non starebbe lì a trafficare con i polli.
Se proprio si è obbligati, pensa Sante, allora è meglio essere quello che la bestia la ammazza piuttosto che quello che la tiene ferma, costretto a sentire la pressione delle ali sulle mani, la lotta, l’opporsi senza speranza. Sante lo sa perché una volta che aveva sette anni al pronto soccorso un’infermiera gli ha tenuto ferma la gamba mentre gli cucivano una ferita sul ginocchio, senza anestesia. La stretta era decisa, gli occhi dell’infermiera pronti alla fuga.

Il medico fa il proprio lavoro, e chi ammazza i polli anche, ma chi ha con la vittima un legame intimo, perché ne tocca con mano la paura, è colui che la immobilizza.
E così la forza inutile delle ali, le zampe che scalciano e quel frullare asciutto di piume sono le cose peggiori da ricordare per Sante quando tutto è finito. Quelle che gli si imprimono suo malgrado nell’immaginazione e alle quali ogni tanto ripensa anche se non vorrebbe.

Sante ora è seduto sul gradino della porta d’ingresso della vecchia casa padronale, con la faccia rivolta verso il granaio e la rimessa dei trattori. Alla sua sinistra stanno i filari di vigne con l’uva ancora verde, a destra l’orto con la verdura.
Ai piedi del granaio la zia, una donna sottile e dal fare misteriosamente elegante, sta ordinando al figlio di tenere ferma una gallina.
Ammazzano circa trenta animali per volta. Poi li scottano nell’acqua bollente, li spennano, li sventrano, e alla fine li mettono nel congelatore e quando è il momento ne scongelano uno, lo cucinano e lo mangiano, e lo mangia anche Sante.

Proprio adesso squilla il telefono.
Sante stringe i pugni dentro le tasche dei pantaloni.
La zia si alza di scatto dalla sedia e dice a Matteo di reggere la gallina, di non farla scappare. Poi si pulisce sbrigativamente le mani sul camice da lavoro e si dirige verso casa. Entra sfiorando la spalla di Sante e scostando la tenda di plastica che produce un fremito multicolore.
Dall’altro lato del cortile Matteo rimane con la gallina tra le mani, sospeso in quel ruolo per un tempo più lungo del necessario, diverso dell’ordine delle cose, cosicché ora non si trova più nel mezzo di una normale procedura, ma in un terreno imprevisto e nudo, in grado di dare nuovo corso agli eventi, oppure di farli piombare nel caos.

Sante ascolta la zia dire al telefono “sì, certo, mio nipote è qui con me, è tranquillo”, e in quel momento spera con tutte le sue forze che la gallina venga graziata. Forse quella telefonata ne ha sancito l’unicità, le ha assegnato una individualità propria che la distingue dal resto del pollaio e, forse, questo le salverà la vita.

La giornata è calda e il cielo uniforme, senza eccessi, né il sole forte né il protagonismo di alcune nuvole, piuttosto un diffusa velatura grigio chiaro che ricopre tutto impassibile.
La zia fa un colpo di tosse e dopo un attimo di silenzio chiede come è andato l’intervento (un intervento difficile ma non impossibile, così avevano detto i medici il giorno prima). Sante immagina sua madre stesa sul tavolo operatorio – con il vestito a righe e i capelli biondi sciolti – che si volta verso di lui sorridendo e gli strizza un occhio, ed è in quel momento che lo sguardo di Sante incrocia quello di Matteo. Immediatamente Sante lo distoglie, ma capisce che è troppo tardi.

Come attivato da un interruttore, suo cugino si risveglia da quello stato in cui era sospeso con la gallina tra le mani senza sapere bene cosa fare, e scatta in lui qualcosa che lo solleva dalla complessità del giudizio e lo riporta in un territorio noto. Adesso non esistono più dubbi, ma soltanto l’occasione di dimostrare che si è in grado di finire il lavoro, però a regole sovvertite, in modo spregiudicato, a modo proprio.
I muscoli del braccio sinistro di Matteo si contraggono e rinsaldano la presa sull’animale, mentre la mano destra afferra un grosso coltello appoggiato sul banco da lavoro. Il coltello si solleva e rimane sospeso in aria per una frazione di secondo, poi cala sul collo della bestia e le trancia la testa di netto.

Il corpo della gallina batte le ali con gli ultimi spasmi di vita e cade dal tavolo basso su cui è appena stato decapitato. Matteo lo rimette in piedi e gli dà un piccolo calcio.
La bestia senza testa inizia a camminare lentamente, mentre Matteo si abbandona su una sedia, con le braccia vuote.
Sante lo ha sentito dire, che le galline possono camminare anche senza la testa, ma non ci ha mai creduto, però adesso lo vede con i propri occhi.

La gallina avanza e si dirige in linea retta verso un piccolo stagno poco distante, e pare proprio abbia intenzione di raggiungerlo, esprimendo con tutto ciò che le rimane un ultimo atto di volontà.
Lo stagno è poco più di una pozza ma ci sono sopra tre ninfee e dentro quattro grossi pesci che mangiano le larve di zanzara e nuotano pacifici. Dei pesci si vedono soprattutto le schiene lisce che talvolta emergono sulla superficie scura dell’acqua con movimenti lenti.

La zia dice “va bene glielo dirò, grazie dottore”.
Sante pensa forza ce la puoi fare.
La gallina continua ad avanzare verso lo stagno. Cammina lentamente e sembra sempre sul punto di fermarsi.
La zia riattacca il telefono.
Sante vorrebbe alzarsi e avvicinarsi all’animale, o quel che ne resta, e in qualche modo aiutarlo a raggiungere lo stagno, ma ha paura che il più piccolo movimento possa spezzare l’incantesimo.
La gallina è a poco più di mezzo metro dall’acqua e adesso è quasi ferma. L’aria anche è ferma, e i pesci sono silenziosi per loro natura.

La tenda di plastica si apre, la zia si affaccia e rimane immobile sulla soglia guardandosi attorno come cercando di decifrare un rebus complesso.
Sante non muove un muscolo mentre sente la mano della zia posarsi lentamente sulla sua spalla.
Matteo guarda la madre e si prepara alle conseguenze.
In lontananza un trattore emerge dalla vigna e Sante teme che le vibrazioni delle ruote sul terreno compromettano tutto.
Mancano pochi passi ora, forse quattro.
Sante si concentra per fermare l’avanzare del trattore, per tenerne lontano il rumore.
Manca poco, quasi niente.
La bestia ce l’ha fatta.

Sante alza la faccia verso la zia, lei lo guarda e gli sorride.
É alta e chiara e assomiglia molto a sua madre.

 

2 commenti Aggiungi il tuo

  1. Andrea Taglio ha detto:

    è un bel racconto, ma, soprattutto, è scritto benissimo.

    Piace a 1 persona

    1. Odette ha detto:

      davvero Andrea? grazie, dal mio compagno di corso lo apprezzo tanto

      Piace a 1 persona

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