La sindrome della scimmia

Questa estate ho fatto una vacanza al mare con una mia amica e quattro bambini di varie età, uno mio e tre suoi.
Ogni giorno, al momento dei pasti, cercavamo di far sedere educatamente a tavola la nostra piccola tribù, innanzi a piatti il più possibile sani ed equilibrati.
Dopo di che noi mamme trovavamo posto negli angoli più improbabili della cucina e lì, abbarbicate su mobili, schienali o braccioli, ci dedicavamo a rosicchiare culi di pagnotte, raschiare sugo dalle pentole, piluccare foglie di insalata, agguantare al volo la frutta che cadeva dal tavolo.
Ci prendeva insomma quella cosa che io chiamo “Sindrome della scimmia”.
La Sindrome della scimmia ti spinge dopo che hai predicato bene a razzolare male, ovvero a smangiucchiare alla cazzo di cane spulciando tra quel che resta del giorno.
La Sindrome della scimmia ti impedisce di consumare un piatto intero seduta a tavola come Dio comanda, perché preferisci stare ai margini, e del resto che gusto c’è a tuffarsi (nel piatto) quando a volte tutto il meglio è sul bordo (della pentola)?
La Sindrome della scimmia ti fa cercare le cose piccole, i tozzi e le briciole, le visioni laterali, i punti di vista alternativi dentro le portate mainstream. Ti fa provare abbinamenti nuovi, disegnare relazioni nascoste tra il primo e il secondo, il contorno e il contesto. Ti fa togliere le scarpe, gironzolare scalza, mangiare con le mani talvolta stando in piedi. Parlando, tacendo, ascoltando.
E così, a spizzichi e bocconi, tra il non detto e lo sviscerato, tra il rimosso e il rimestato, può succedere anche che ti avvicini al nocciolo dei pensieri, al dulcis in fundo dei desideri, o perfino al traumatico ammazzacaffé.
Ma la volta dopo riprendi di nuovo a sbocconcellare, che è una via di mezzo tra il nutrirsi e il ballare, perché hai la Sindrome della scimmia e non ti passa, e quel che non passa, tu lo sai, lo sminuzzi e non t’ammazza.

me macaca

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