Col cellofan da bambina mi ci fabbricavo i vestiti e le scarpe.
Le scarpe erano buone soltanto per camminare sulla moquette di casa. Le chiamavo le “scarpe da interno”.
Ancora oggi, quando ripenso alle scarpe da interno, provo un piacere che descrivere non saprei.
Riesco soltanto ad andare per associazioni, e così mi viene avanti anche la vestaglietta che mio padre m’aveva portato dalla Thailandia (scivolosa), e poi la buia collana di giada (conteneva un mistero), la sedia in vimini con lo schienale alto (regale), il vaso con dentro l’erba delle Pampas (polvere), il poster di Marilyn Monroe (bellissima e lontana), e io che mi tolgo le scarpe da interno per arrampicarmi sui piedritti delle porte, come una selvaggia, come un animaletto, come una bestiolina, come una “simia col cul spelà” dicevano per scherzo (imbarazzo).
Di cellofan era ricoperto anche il salotto buono di mia nonna, quello che non ti ci potevi sedere, allestito soltanto per ospiti immaginari (inimmaginabili).
Da quest’ultimo prendo spunto anche per la rubrica di oggi sul giornale, se ti va di cercarla in edicola.
(La rubrica si intitola “PNeologismi” e la trovi ogni domenica nel Messaggero di Pordenone)
Leggerei volentieri degli ospiti inimmaginabili sul divano ricoperto di cellophane. Devo venire a Pordenone o ci sono altri metodi più addivanati, adatti al mio divano, assolutamente cellophanefree.
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mia cara, nell’articolo sul giornale il cellofan era solo uno spunto… ma in ogni caso, dimmi, sei tu, anche sotto mentite spoglie, per caso su Facebook? Oppure se hai una e-mail te lo invio lì. (la mia è odette.c@gmail.com)
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mrs.whitewordpress@yahoo.it
Facebook non cellò.
Leggerò con gioia, darling.
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ti manderò una missiva allora, missiswhite ❤️
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Splendido ❤️
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