Era uscita indossando guanti lunghi e una sciarpina leggera a velarle le labbra.
Il cielo era terso, le strade sgombre, il cane al suo fianco fedele. Un border collie bianco e nero, un po’ più piccolo della media, ma del resto anche la padrona era minuta, a volte Border le diceva “I tuoi anfibi sono più pesanti di te”. Lei aveva smesso da tempo di stupirsi.
Lungo il tragitto aveva raccolto dei piccoli fiori senza pretese, di quelli che crescono nei fossi, tra l’erba di strada.
All’ufficio comunale, dove si era recata per sbrigare una faccenda per l’anziano padre, si era mantenuta a due metri di distanza dalle altre persone, un metro per legge e un metro per creanza.
La privacy era sempre stata fondamentale per lei, soprattutto da quella volta in cui due sconosciuti, avendola udita bisbigliare a Border “La vuoi smettere di dirmi quello che devo fare?”, roteando il dito vicino alla tempia s’erano fatti cenno Questa è matta.
Al rientro in casa si era sfilata gli anfibi e poi i guanti, li aveva lasciati sulla mensola di legno dell’ingresso, poi si era lavata le mani e aveva preparato per il pranzo apparecchiando ai due lati opposti del lungo tavolo, nel mezzo aveva sistemato un candelabro e un vasetto di cristallo coi fiori di strada. I piatti, quelli appartenuti alla bisnonna. I bicchieri, quelli fragili d’antica credenza. I tovaglioli, quelli in tessuto, stirati con cura molto, molto tempo prima.
Quando il fantasma arrivò, puntuale allo scoccare delle tredici, per prima cosa guardò la tavola apparecchiata in modo aristocratico, e disse “Perché questa distanza?”
“Non voglio rischiare di contagiarti.”
“Sono morto da tempo, non rischio nulla.”
“Nessuno sa cosa c’è dopo la morte, e io non voglio rischiare.”
“Per te andrei all’Inferno dell’Inferno, lo sai.”
“Non sarò io a mandartici.”
“Ti amo.”
“Anch’io ti amo.”
