In questi giorni ho provato nostalgia perfino per il Thermopolium di Pompei.
Saranno secoli che non andiamo al ristorante spensierati, ciascuno all’apparenza, prima di.
E così ho deciso che stasera in casa ci si vestirà eleganti, come se. Si consulterà un menù scritto a mano, la mia. Si ordinerà la pietanza più invitante, quella finita.
“Mi dispiace ma è terminata. Va bene lo stesso del formaggio? Viene da una mucca felice”
“Come lo sai?”
“C’è scritto sull’etichetta.”
La buona cucina, come quasi ogni cosa, è uno stato mentale e modestamente io mento.
Ceneremo sulla tovaglia delle grandi occasioni mancate, a lume di candela, che attenua le ferite. La candela strategicamente posizionata sopra quella macchia che non se ne va.
Dopo cena un digestivo, il conto alla rovescia, poi ci alzeremo e indosseremo il cappotto.
“Abbottonalo, che fa freddo.”
“Sì.”
Usciremo dalla porta che si chiude alle nostre spalle e rientreremo dal portone che si apre.
“Finalmente a casa”, diremo varcando il traguardo, prossimi allo zero.
“Guarda… che strano. Qualcuno deve aver cenato in casa nostra.”
“Già. Chissà chi.”
“Be’, avevano buon gusto, hanno scelto la tovaglia migliore.”
Spegneremo la candela rimasta accesa per ritrovare la via.
La macchia ancora lì, ma chi se ne importa.
