Quando mi serve qualcosa al volo – ad esempio in questo periodo un ombrellone o magari una borraccia o un telo da mare perché decido su due piedi di andare, che ne so, a Caorle che da casa è soltanto a un’ora di finestrino abbassato – prima di fare acquisti telefono a mio padre e dico “Pa’, non è che per caso nel tuo Emporio disponi di tale articolo?”.
E lui dice “Speta che vado”.
Quindi si reca in quello che noi chiamiamo l’Emporio, ovvero la soffitta di casa dove ha conservato ordinatamente l’intero secolo scorso, mi richiama e dice “Ce l’ho, vien a ciòrlo”.
E così io, invece di andare alla Decathlon o al Center Casa, vado all’Emporio e me ne torno con un prodotto degli anni Settanta sotto il braccio.
Certi articoli da giovani marmotte, certe seggioline di plastica essenziali, certi ombrelloni fioriti, certe lenzuola diafane, certi asciugamanini da mare frusti che li metti in borsa e pesano nulla…
Di colpo mi ritrovo a pensare che il vero lusso non risiede mica in chissà che.
Se ne sta in fondo in una manciata di comuni cose di famiglia rese aristocratiche dallo scorrere del tempo, risiede in ciò che consumandosi acquista levità, si annida nell’eleganza di certi filati lisi che hanno il potere di setacciare la memoria rendendola fine, raffinata (il perdono nel presente, le scorie nel passato), selezionata, scelta, episodica, sopportabile, leggera.
O almeno un filo più leggera, dài, dipende anche dalla trama del tessuto.
Invecchiare, in certi casi, non è poi così male…
Ombrellone: Emporio, anno 1978, Porcia.
Radio: salotto con cellofan di Grandma, anno 1950, Cordenons.
Manuale malincomico: Biblioteca dell’immagine, anno 2020, Villanova.
Baffi: crema SPF 30, anno indefinito, scaduta.

Edizioni Biblioteca dell’immagine
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