Deglutire prima di addromentarsi, da soli o all’unisono accanto alla persona amata, per buttare giù il giorno, mi è sempre sembrato un minuscolo atto struggente. Presente? Quando si fa “gluc!” e ci si assesta e rilassa (madonna, quante “s” servono per lasciarsi andare), si mettono a posto le cose della vita per almeno cinque secondi di fila, fino alla prossima esigenza di “gluc”.
Il pigiama ce l’hai, la coperta sopra il pigiama anche, il soffitto sopra la testa pure, il tetto più su anche-pure, le stelle più su anche-pure-anche.
È bello pensarci.
Le veci del “gluc” le possono fare un lungo sospiro o gesti minori come infilarsi il fazzoletto nella manica, o la mano sotto la guancia, o raccogliere le gambe al petto stupendosi di quanto siano intime e aliene le proprie ginocchia nude.
C’è un mondo di minigesti e microazioni contenenti l’esistenza concentrata che si annida sotto la coperta d’un giorno d’autunno, o quel che ne rimane quando giunge sera.
Ma quel deglutire, quel tentativo di riequilibrare il tutto per un momento, quello è un concentrato d’universo.
