Pianto di cane

Clara aveva zigomi alti e pronunciati e due rughe sottili ai lati della bocca.
Lo sguardo era lontano, oltrepassava il muro sporco del bar dove era seduta mentre una musica triste di sottofondo alimentava la malinconia che l’aveva caratterizzata fin da bambina, quando provava a grattarla via raschiandosi la pelle con il rasoio di suo padre. Una volta aveva raschiato così in profondità da procurarsi una macchia rossa lungo tutto l’avambraccio, e bruciava a tal punto che le erano scese due lacrime calde e dense che l’avevano infine consolata. Allora era andata in cucina, aveva afferrato un tovagliolo unto dal tavolo apparecchiato, e le aveva asciugate con un gesto teatrale. Poi era uscita e aveva lanciato il tovagliolo al pastore tedesco che se ne stava placido di fronte alla porta d’ingresso. Si chiamava Laika, come il primo cane sulla luna, e aveva snobbato il gesto come era prevedibile facesse.
Clara aveva raccolto il tovagliolo da terra e lo aveva spinto nella bocca del cane, e il cane l’aveva sputato con la pazienza di un padre che tollera una figlia di cui non conosce le ragioni superficiali, ma comprende la natura profonda e la sensibilità così umana da divenire intellegibile anche per i cani, le galline dentro il recinto di ferro, e i conigli bianchi a cui non devi affezionarti perché tireranno loro il collo.
Dentro quel bar con l’insegna flebile e i cadaveri dei tramezzini avvolti nella pellicola trasparente, Clara guardava il muro con al centro il bersaglio per le freccette, pensando che se l’avesse fissato abbastanza intensamente si sarebbe aperto un varco e un fascio di luce l’avrebbe strappata a quel posto, portandola da lei.
Lei che ora era assieme a un marito che il sabato sera la amava per mezz’ora, dopo essersi spogliato senza fretta, aver appeso la camicia sulla sedia e piegato i pantaloni lungo la piega con la cura di chi non ha capito niente.
Pensò di scriverle un messaggio, ma cosa avrebbe potuto dirle che non le avesse già detto o scritto o impresso sulla pelle o passato con la saliva da una bocca all’altra.
Ordinò un altro bicchiere di vino ignorando lo sguardo di interesse che un uomo in jeans slavati e sneakers lerce le lanciò passandole accanto.
Sapeva che non sarebbe servito granché quell’ulteriore bicchiere, se non a trasformare il senso di mancanza in nausea e il tragitto verso casa più difficile. Ma cos’altro poteva fare.
Forse riprendersi in mano la propria vita, pensò, se solo sapesse come si tiene in mano, una vita.
Decidersi ad andare oltre, lasciare quella città piovosa che non aveva altro da offrirle ormai, ma non è certo compito delle città offrirci opportunità come fossero omaggi. E allora una città le sembrò valere un’altra.
Uscì lasciando il bicchiere di vino a metà e si diresse verso l’auto barcollando. Cercò le chiavi all’interno della borsa con la mano cieca e le trovò in un buco della fodera.
Guidò, indecisa se rincasare o dirigersi verso la casa di Isabella, nella speranza del tutto infondata di vederla uscire nella notte in camicia bianca lunga e capelli sciolti, magari per buttare la spazzatura, oppure per fumare una sigaretta in santa pace, e così incontrarsi anche solo per un minuto, che era un’unità di misura sufficiente per due come loro.
Per due come loro.
Ma Isabella non sarebbe uscita in strada, non avrebbe buttato la spazzatura e non avrebbe fumato nessuna sigaretta. E mentre pensava che non avrebbero avuto il minuto che desiderava con tutte le sue forze, si sentì scuotere in modo tanto intenso e improvviso che per una frazione di secondo si chiese se finalmente il varco si fosse aperto, squarciando lo spazio e il tempo.
Perse conoscenza.
L’auto sbalzò fuori strada, contro la fila di alberi solidi che stavano piantati a terra, da prima di tutto.
La trovò un’ora dopo il tizio con le sneakers lerce che chiamò un’ambulanza e, le avrebbero raccontato in seguito, rimase ad attendere sue notizie in sala d’aspetto per tutta la notte, fino a che lo rassicurarono che la sconosciuta che fissava il muro del bar se la sarebbe cavata.
Si risvegliò in una stanza luminosa, sotto le mani efficienti di una infermiera giovane e smunta.
Immediatamente venne il dolore, diramato su ogni ogni fibra del corpo.
Quando le spiegarono quello che era accaduto, Clara iniziò lentamente a sentire che non era stato abbastanza. Non abbastanza da strapparle dal cuore quel morso di cane.
Ed era ancora stesa sul letto d’ospedale, immersa nell’immagine del suo cuore azzannato dal cane, quando vide comparire Isabella, chiara come sempre, con in mano una scatola di cioccolatini e lo sguardo pieno d’ansia. Una vampata di felicità triste le inondò la testa provocandole un capogiro, poi aprendole e chiudendole il petto con una morsa progressiva di cui Clara conosceva bene il punto d’arrivo.
Nel corridoio alcune voci di infermiere si sovrapponevano le une alle altre.
Provò una fitta profonda alla vista dei cioccolatini che Isabella reggeva tra le mani, la stretta che le schiariva la punta delle dita. Se la immaginò mentre li comprava al bar di fronte, sotto le luci fredde dei neon. La vide pagare accanto alla colonnina dei chewing gum, con il barista che non alzava lo sguardo dal rumore metallico della cassa, e poi uscire tenendosi la giacca chiusa con una mano.
Ebbe un senso di nausea e vide anche quello che sarebbe accaduto dopo: avrebbe raschiato via quella tenerezza vischiosa con il rasoio, si sarebbe asciugata il sangue con un tovagliolo unto e poi lo avrebbe spinto nella bocca del cane che le stava azzannando il petto, fino in fondo, fino ad ucciderlo.
Ma fu solo quando sentì la propria voce dire a Isabella di andarsene, che credette a quella versione dei fatti.
Isabella non si mosse.
Clara le piantò gli occhi negli occhi senza aggiungere altro e dopo un tempo che le parve infinito, iniziò a sentirsi sfinita.
Ogni secondo che trascorreva fissando quel volto chiaro che desiderava con tutta se stessa, senza rimangiarsi le proprie parole, ma dandole piuttosto in pasto al cane e tenendole premute contro il suo muso, era un dolore scuro e senza fondo.
Il cane soffocava e soffocava, e sbiadiva, e forse piangeva di quel pianto con cui piangono i cani, ma non mollava la presa, e fissava, e mordeva.
Clara perse conoscenza.
Quando riaprì gli occhi Isabella non c’era più.

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