Sarà la pannoia, sarà la cattività, ma a casa mia ultimamente ci piace imprecare a piena voce. Segue risata sguainata (certe risate sono così, più che sguaiate, sguainate, come spade contro i mostri).
Così capita che all’improvviso uno chieda “Si vede?”, e l’altra “Che cosa?”, e l’uno “La vastità del cazzo che me ne frega!”
E giù a ridere ridere ridere ancora, ora la guerra paura non fa.
Ma ci piace anche il gioco dei proverbi, per esempio l’uno dice “La pazienza è la virtù…?”, e l’altra “Di chitemmuort!”. E giù di nuovo a ridere come se non ci fosse un domani, ma il domani arriva e così il giorno seguente l’una piagnucola con vocina affranta “Nooo, si è rotto”, e l’altro, accorrendo preoccupato, “Oh no, che cosa?”, e l’una “Stocazzo”. E vai di risata esagerata e sdentata, di quelle che provengono dai musi sporchi dei mocciosi di tutto il mondo e di tutti i tempi, dal Pin del “Sentiero dei nidi di ragno” a Huckleberry Finn, dal bambino che eri a quello che continui a essere, sotto strati spessi anni e anni.
Le battute sono semplici, becere, tutto sta nel tono e nelle sfumature.
Non so se questo accresciuto bisogno di risata grassa serva per esorcizzare un periodo di magra, e non so nemmeno se succede solo a me o se capita anche a voi, ma tant’è: volgarità semplice contro periodo complicato, a salvaguardia del pensiero complesso.
Perché certi pensieri, che sono acque profonde e nere, vanno domati (e protetti) con modi da scaricatore di porto, un porto sicuro.
E certe paure, incastonate in gola come corpi estranei, vanno sputate fuori a manate sulla schiena e pacche sul culo.
La profondità in fondo è fatta da strati di superficie. E quando ne sfogli via uno, capita che faccia il solletico.
A volte fino alle lacrime agli occhi.